Alessandra, il suo primo mezzo Ironman e il triathlon al tempo del Covid

Sfogliando vecchie e-mail, mi sono imbattuto nel messaggio di Alessandra Manfrin, che un anno fa mi mandava il resoconto del suo primo mezzo Ironman a Saint Polten, corso insieme al più esperto Filippo Marangoni.
Innanzitutto complimenti per la loro impresa e mi scuso per non aver dato loro lo spazio che ho sempre cercato di dare a tutti in questa piccola rubrica di squadra.
Alessandra è una ragazza minuta, riservata e tenacissima e il suo resoconto è stato forse più tecnico che entusiasta, ma conoscendola, so e voglio riportare le mille emozioni che ha vissuto in quella sua prima gara di endurance!
Alessandra si è messa alla prova e come tutti noi, per questa sua grande soddisfazione di tagliare il traguado di un mezzo ironman, si è allenata per mesi, destreggiandosi tra lavoro, allenamenti più o meno impegnativi, rispettando tabelle, versando sudore, imprecazioni e sorrisi.
Ed alla fin ce l’ha fatta, in 5 ore e 51 minuti!
(Filippo, nell’ottimo tempo di 4:53)
E pensando alla sua gioia in quel momento, ripenso alla mia, alla soddisfazione del mio primo traguardo, una gioia profonda, viscerale, che sfuma in orgoglio e benessere intimo.
Si è fatta una cosa non comune, si è completato un percorso che non è solo fisico ma anche mentale, ci si è messi in gioco, ci si è gestiti, superato infortuni, solitudini, ci si è conosciuti meglio.
Ecco, tutte queste sensazioni, quest’anno ci sono negate. Niente più “smacchinate” verso i campi gara, niente più mute da infilare, battute per stemperare la tensione, niente più emozione delle acque libere, o brividi della competizione… Ma, si dirà, si può ben rinunciare per un periodo a queste gioie un po’ futili… Sì, certo, ci mancherebbe…
Tutti soffrono chiaramente per la mancanza di libertà e per l’isolamento sociale indotto dalla gestione del Covid. La comunità del triathlon, però, essendo una nicchia diciamo fuori dall’ordinario, ha sofferto di disagi particolari..
Chi pratica triathlon è abituato ad allenarsi quotidianamente, anche più volte al giorno. Questo crea una sorta di dipendenza fisica e psicologica vera, reale che molti non comprendono e non ammettono, ma che è assolutamente provata e naturalmente l’impossibilità di allenarsi con continuità per molte settimane ha sottoposto a stress notevole tutti gli atleti.
Come un po’ in tutti gli sport anche nel triatlhon si migliora per piccoli passi, e anno dopo anno si conseguono nuovi traguardi, migliori prestazioni, il fisico si irrobustisce e si struttura, ma ci vuole molto poco per perdere quanto guadagnato ed anceh per questa consapevolezza l’inattività fozata provoca grande frustrazione.
Inoltre lo sport che maggiormente ha risentito del lockdown è stato il nuoto, che riveste una funzione centrale nella preparazione del triathlon per una serie di fattori: non solo è molto facile perdere l’acquaticità acquisita e il tono muscolare adatto, ma il nuoto consente di compensare gli stress fisici della bici e della corsa in particolare, ed ha, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, una forte valenza aggregante, in quanto si condividono orari, corsie, allenamenti e spogliatoi e talvolta anche i successivi pasti.
Per la corsa lo stress è stato causato dalla pessima gestione di questo tipo di attività da parte delle autorità e di alcuni praticanti, arrivando addirittura a considerarci quali untori. Infatti mentre per la bici il problema dell’allenamento è risolvibile con un rullo da qualche centinaio di euro e tanto noia, per la corsa non tutti possono permettersi un attrezzo adeguato per allenarsi in casa.
Per comprendere il disagio del triatleta, bisogna anche immedesimarsi nella psicologia di una persona che per le prorie attitudini trova motivo di sfogo e di vita nel compensare le difficoltà quotidiane con il movimento, e precisamente con il movimento all’aria aperta, spesso in compagnia, per cui la privazione di tutti questi elementi, simultaneamente e lungamente, è innegabile che impatti sugli atleti in modo molto negativo.
Le reazioni naturalmente sono state le più diverse, da chi si è buttato completamente sulla bici, investendo ogni risorsa in rulli smart, Zwift, Rouvy e compagnia cantante, tornando quasi come il quindicenne videogamers di un tempo, chi ha tracciato trincee correndo nel giardino di casa, o sfidando il biasimo sociale con furtive corse ad orari improbabili, chi tuffandosi nell’alcool con il trasporto dell’etlista consumato. Chi tutte queste cose insieme. Del resto, come dicevo, non siamo proprio normali.
L’unico a mantenere un contegno è stato il presidente Enrico Novo, che per dovere istituzionale non ha potuto che invitare al rispetto delle norme.
Ha detto di non aver più corso dallo scoppio della crisi sanitaria.
Dal momento che la piscina è chiusa e che non l’ho mai visto su Strava farsi un giretto a Watopia* neanche per sbaglio… mi aspetto di trovarmi una quintalata di uomo alla riapertura del Centro Natatorio!!!!
Scherzo chiaramente.
Ora il peggio sembra passato, questa settimana con prudenza riaprirà la piscina e da un paio di settimane corse e allenamenti in bici non sono più un tabù.
Di certo ora apprezzeremo di più la nostra passione ed a coloro che ci fotografavano dalle finestre correre faticosamente muniti di mascherina e guanti nel limite dei 200 metri da casa, diciamo che tra poco le attività riprendenranno nella più assoluta legalità e lorsignori saranno liberi di tornare ad ignorarci come hanno sempre fatto, o di iscriversi con noi e trasformare l’ennesimo giro in supermercato in desiderio di salute, la corsa dal tabaccaio in passione per lo sport e l’invidia in amicizia.
Ed ora fuoco alle polveri! La Rhodigium Team riparte!
Luigi Fini

*Watopia è un luogo mitologico in cui tutti i ciclisti facoltosi del pianeta si rifugiano in tempo di pandemia, ma anche in caso di pioggia. E’ l’atlantide sommersa del ciclismo mondiale, dove impavidi atleti passano dal divano al sellino, accendono il 60 pollici e si sfidano sulle pendici di vulcani ripidissimi, tra schizzi di lava e vampate sulfuree, tuffandosi poco dopo in misteriosi tunnel sottomarini e dove i watt girano veloci come il cestello di uno scolainsalata.